Sulle prime tutto pare esatto, al millimetro, definito e concluso. Nulla è lasciato al caso, all’improvvisazione, all’estro di un momento. Ogni immagine ha una sua collocazione in quello spazio da cui pare sortire ed è una collocazione precisa, addirittura categorica. Il gioco dei colori inoltre, questa sorta di variazione scalare con cui spesso Nino Desirelli costruisce piani e strutture, ha la freddezza di un calcolo, la lucidità di una meditazione che quasi sconcerta per il suo rigore e per quel concatenarsi tra tessuto e tassello, concatenazione che non lascia alcuna alternativa. Partito da un’ipotesi cromatica – che poi è un’ipoptesi fino ad un certo punto – le variazioni seguono una cadenza che non lascia spazio ad altre ipotesi, meglio, a differenti soluzioni; ma questo è soltanto l’aspetto del problema poiché nel loro insieme le proposte di Desirelli conducono a ben altro, ad argomentazioni di altro tipo.
Le immagini del pittore cremonese causano infatti una moltiplicazione di spazi per un loro particolare rimando prospettico. Spesso le forme si aprono ed allora pare di essere presi dallo srotolarsi di un ventaglio, da un turbinio che richiama il vortice di un’elica; in altri casi invece, quando la forma geometrica è più costruita, più definita, un’analoga sensazione è dovuta al gioco sfasato sempre di prospettive, quasi distorsioni generanti proposte di profondità. Ecco, questo è il punto. Esiste un’ambivalenza di fondo, controllata finché si vuole, ma pur sempre presente per cui non è opportuno privilegiare la strana esattezza di Desirelli attribuendole un valore che va al dilà di quella funzione stimolatrice che le è propria. I termini della questione insomma sono da individuarsi, per una lettura più profonda, in questo sfaldamento e nella continua proposta di ordinato disagio, che caratterizzano la sua opera.
L’esattezza cui ho accennato più volte, è infatti strumentale e, pur essendovi connesso un desiderio di ordine, un’esigenza di questo genere anche a livello psicologico, per una sorta di strano gioco, per invenzione proiezioni, viene ad ingigantire quello piazzamento che, in una visione generale è determinante.
L’elemento di cerniera dei due termini, non certo in contrasto, bensì uno legato all’altro, è costituito da un equilibro che non può essere mutato, un’equilibro dovuto alla circostanza che un fattore completa l’altro, e viceversa. Di qui discende una dialettica di elementi i quali, se vengono considerati separatamente, per la loro diversità risultano addirittura in contrasto. E’ però un tema sul quale non è il caso di insistere più del dovuto, anche perché ritornerà in primo piano, e secondo una diversa prospettiva, specie qualora si prenda in considerazione assieme al risultato dell’opera l’atteggiamento, la posizione, perfino il modo di essere del pittore. Giustamente Elda Fezzi, che ha dedicato a Desirelli le pagine critiche più approfondite, si è domandata se queste sequenze non siano il frutto di un interesse fantastico e ludico. Ebbene, la sua è un’indicazione da tenere presente. L’dea dell’elica, accennata poco fa, equivale infatti (prescindendo da qualsiasi annotazione di tipo biografico, come la passione di Desirelli per l’aeromodellismo, che potrebbe portare anche ad un accostamento di queste sue geometrie alle leggere costruzioni di centine e ordinate) ad una proposta di luce, di movimento, di spazio frantumato e mosso; è un suggerimento anche di forza e di mutazione secondo un ordine prestabilito, inafferrabile eppur esistente; un quid, in altre parole, che si vorrebbe concretizzare e, non intendendo per logica di cose operare una trascrizione di carattere scientifico, trasferire su di un piano più alto, coinvolgente addirittura. Ne discende, a voler leggere tra le righe, una visione anche critica della realtà, una proposta all’interno della stessa che non è di evasione bensì di partecipazione diretta ad un’analisi che parte da un dato per negarlo, ma anche per esaltarlo.
L’idea di spazio che si concretizza in forme diverse – non per nulla lo spazio in cui avviene il fenomeno ha colori analoghi al fenomeno stesso, dal bianco all’azzurro al blu – si tramuta così in movimento, in scansione ( perché non ricordare allora sotto un certo punto di vista le proposte dei Futuristi e le esperienze optical?) quindi, pur essendo definita, proprio per certi stravolgimenti raggiunge un’ambiguità che si manifesta e si accresce in un rigore che, se il gioco possiede le caratteristiche, della realtà ha tuttavia l’ineluttabile durezza. Si è pertanto all’interno di una dimensione che ne crea sempre di nuove con continui rimandi, il che equivale ad un concetto di libertà e di condizionamento. Se da un canto assistiamo al superamento di un fatto, di una desinenza concreta come possono esserlo la forma o l’immagine prese di per sé, ecco che subito ci si accorge di essere in una dimensione diversa.
Il rigore dunque come fantasia e la certezza come presupposto di ambiguità; “una culla dello spago”, per dirla con un’immagine cara a Malraux, che non ci lascia mai allo stesso punto, ma ripropone sempre qualcosa di nuovo mantenendo inalterati ogni presupposto ed ogni condizione.
Luigi Lambertini